CESARE PAVESE E I CANI

Cesare Pavese (09-09-1908 27-08-1950) cita i cani nella sua opera definendoli compagni e attrezzi per indagare la natura, spesso legati al gusto della scoperta e alla conoscenza del mondo nascosto della terra, ma possono anche rappresentare solitudine e affetto.
La figura del cane è presente sia nelle sue riflessioni che nelle sue opere, simboleggiando la saggezza istintiva e il legame con la campagna.
C’è una sua poesia del 1935 :
L’istinto
L’uomo vecchio, deluso di tutte le cose,
dalla soglia di casa nel tiepido sole
guarda il cane e la cagna sfogare l’istinto.
Sulla bocca sdentata si rincorrono mosche.
La sua donna gli è morta da tempo. Anche lei
come tutte le cagne non voleva saperne,
ma ci aveva l’istinto. L’uomo vecchio annusava
— non ancora sdentato — , la notte veniva,
si mettevano a letto. Era bello l’istinto.
Quel che piace nel cane è la gran libertà.
Dal mattino alla sera gironzola in strada;
e un po’ mangia, un po’ dorme, un po’ monta le cagne:
non aspetta nemmeno la notte. Ragiona,
come fiuta, e gli odori che sente son suoi.
L’uomo vecchio ricorda una volta di giorno
che l’ha fatta da cane in un campo di grano.
Non sa piú con che cagna, ma ricorda il gran sole
e il sudore e la voglia di non smettere mai.
Era come in un letto. Se tornassero gli anni,
lo vorrebbe far sempre in un campo di grano.
Scende in strada una donna e si ferma a guardare;
passa il prete e si volta. Sulla pubblica piazza
si può fare di tutto. Persino la donna,
che ha ritegno a voltarsi per l’uomo, si ferma.
Solamente un ragazzo non tollera il gioco
e fa piovere sassi. L’uomo vecchio si sdegna.
Ne “Il compagno” (1947) scrisse:
«Pensavo, invece, rientrando la sera, ai discorsi che avevo fatto con tutti ma a nessuno avevo detto ch’ero solo come un cane»
Cesare Pavese, nel suo romanzo breve “La casa in collina” (1948) nomina spesso un cane di nome Belbo.
« La guerra mi tolse soltanto l’estremo scrupolo di starmene solo, di mangiarmi da solo gli anni e il cuore, e un bel giorno mi accorsi che Belbo, il grosso cane, era l’ultimo confidente sincero che mi restava.»
« Belbo, accucciato sul sentiero, mi aspettava al posto solito, e nel buio lo sentivo uggiolare. Tremava e raspava. Poi mi corse addosso saltando per toccarmi la faccia, e lo calmai, gli dissi parole, fin che ricadde e corse avanti e si fermò a fiutare un tronco, felice.
Quando s’accorse che invece di entrare sul sentiero proseguivo verso il bosco, fece un salto di gioia e si cacciò tra le piante.
È bello girare la collina insieme al cane: mentre si cammina, lui fiuta e riconosce per noi le radici, le tane, le forre, le vite nascoste, e moltiplica in noi il piacere delle scoperte.
Fin da ragazzo, mi pareva che andando per i boschi senza un cane avrei perduto troppa parte della vita e dell’occulto della terra.»
Nel romanzo “La luna e i falò” (1949) scrisse
« Gli diceva che sono soltanto i cani che abbaiano e saltano addosso ai cani forestieri e che il padrone aizza un cane per interesse, per restare padrone, ma se i cani non fossero bestie si metterebbero d’accordo e abbaierebbero addosso al padrone. »
Nel suo diario “Il mestiere di vivere” (1935-1950) si può leggere:
«Si è tanto parlato, descritto, divulgato l’allarme sulla nostra vita, sul nostro mondo, sulla cultura, che vedere il sole, le nuvole, uscire in strada e trovare dell’erba, dei sassi, dei cani, commuove come una grande grazia, come un dono di Dio, come un sogno.
Ma un sogno reale, che dura, che c’è.»
Vicla Sgaravatti
Medico Veterinario
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